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GIACOMO MATTEOTTI (1885 –1924). Una Storia di tutti

ROVIGO • È un Matteotti a tutto tondo quello che emerge, dal 5 aprile al 7 luglio, in Palazzo Roncale a Rovigo, dalla mostra “Giacomo Matteotti (1885 –1924). Oggi il Vernissage per la Stampa, e nel pomeriggio/sera presentazione al pubblico.

"Giacomo Matteotti. Una Storia di tutti” promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo con la collaborazione della Direzione Generale Archivi – Archivio di Stato di Rovigo, della Direzione regionale Musei Veneto, del Comitato Provinciale per il Centenario di Matteotti, della Fondazione studi storici “ Filippo Turati” e il patrocinio del Comitato Nazionale per le Celebrazione del centenario della morte di Giacomo Matteotti.


Lo anticipa il professor Stefano Caretti, tra i massimi studiosi di Matteotti e di storia del socialismo, docente di Storia contemporanea all’Università di Siena.

Dell’uomo politico polesano la mostra rievoca l’attività di pubblico amministratore in diverse realtà del territorio rodigino, l’impegno nell’attività sindacale nelle leghe e cooperative e quello parlamentare, irriducibile oppositore del fascismo e infine segretario del Partito Socialista Unitario. Così come ad essere ricordati, anche con la emersione di documenti, mai prima esposti, patrimonio dell’Archivio di Stato di Rovigo, sono il suo assassinio e infine il suo funerale.

Ma, in parallelo, ad essere approfondito in mostra è anche il Matteotti privato, le sue letture, la passione personale e familiare per la musica, il fondamentale rapporto con la moglie Velia e la famiglia.

Alla mostra rodigina ha assicurato la sua collaborazione anche il Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso (Ministero della Cultura), che metterà a disposizione un corpus di manifesti che documentano quanto la vicenda Matteotti abbia influito nell’Italia del tempo.

“Pochi uomini politici hanno saputo ispirare – sottolinea il curatore della mostra, professor Caretti – intere generazioni e suscitare echi così profondi e duraturi, anche all’estero, come Matteotti, ma pochi sono stati al tempo stesso glorificati e meno conosciuti. Certo ha nociuto in qualche modo alla comprensione della complessa personalità di Matteotti il prevalere dell’aurea mitica, e quindi astratta, sulla figura concreta dell’uomo.

Scopo della mostra è appunto quello di sottrarre la figura di Giacomo Matteotti a una astratta rappresentazione del martire e restituire la corposità della sua presenza reale nei luoghi, nelle umane relazioni, nelle scelte ideali e culturali, che lo videro operare dalla sua appartata periferia polesana per giungere alle esperienze ai vertici della politica nazionale. La mostra si sviluppa come una sorta di racconto per immagini e documenti, sovente di rara reperibilità, che riescono, con la loro pregnante immediatezza visiva, a ricostruire il senso complessivo di una vita non racchiudibile nella pur nobile fissità del martirologio, ma che anzi in tal modo spiega quel percorso di rigoroso impegno civile e di dovere etico capace di giungere al sacrificio estremo.

La sua rappresentazione di organizzatore di leghe e cooperative, amministratore locale, deputato in Parlamento nella irriducibile opposizione al fascismo, e infine segretario del Partito socialista unitario, restituisce una nuova e concreta immagine di Giacomo Matteotti.

Info e prenotazioni visite: www.palazzoroncale.com

Lun/Ven 9.00 - 19.00
Sab / Dom / Festivi 9.00-20.00

Ingresso gratuito

I percorsi della Mostra

Piano Terra

  • Intro 

La mostra approfondisce la vicenda umana e politica di Giacomo Matteotti (18851924), figura emblematica della storia italiana di cui nel 2024 ricorre il centenario della scomparsa. La sua denuncia della nascente dittatura, atto di coraggio già di per sé meritevole di essere tramandato come esempio, lo consacrò alla memoria dell'antifascismo durante e dopo il Ventennio, facendogli assumere tratti eroici. 

AI di là dall'aspetto celebrativo, l'esposizione ha l’obiettivo di ricollocare la storia del deputato all'interno del contesto polesano, dove nacque e visse gran parte della sua breve esistenza, un luogo in cui potevano leggersi, estremizzati, fenomeni comuni al resto d'italia, come la povertà, l'emigrazione, la conflittualità sociale prima, le violenze del dopoguerra poi. Fu probabilmente quello sguardo sempre rivolto al suo territorio che permise a Matteotti di cogliere prima di altri i segni dei tempi. 

Nato a Fratta Polesine - da una famiglia molto agiata - aderì presto al socialismo e via via intensificò fl suo impegno politico nel Partito e nell’amministrazione locale, assumendo sempre le conseguenze dell'espressione forte e pubblica delle proprie posizioni, spesso controcorrente e visionarie: dalle polemiche giornalistiche, al limite della diffamazione e della minaccia, fino alla condanna per disfattisma. Pacifista convinto, dopo fl confino In Sicilia, nel dopoguerra, venne eletto deputato, rinvigorendo le denunce alle crescenti violenze del fascismo, fino al suo clamoroso rapimento e omicidio compiuto il 10 giugno del 1924. 

Il percorso espositivo propone un confronto tra il contesto sociale e culturale dell'epoca e le idee e gli episodi della vita di Matteotti, così da evidenziare le influenze e le peculiarità delle sue scelte, dando la possibilità al visitatore di inquadrare la sua azione nelle corrette coordinate spaziali e temporali. 

La storia di Giacomo Matteotti è e deve essere considerata, soprattutto, una storia di tutti. 

Per questo il compito principale della mostra è quello di promuovere la conoscenza della società italiana dell’epoca e, quindi, delle complesse dinamiche che portarono all'instaurarsi della dittatura, al fine di evitare che gli errori commessi in passato possano ripetersi in futuro. 

  • Ville e tuguri. Matteotti e il suo Polesine 

Giacomo Matteotti nasce il 22 maggio 1885 a Fratta Polesine, nella provincia di Rovigo, un territorio che al volgere del secolo ancora si basa sul latifondo. 

Un luogo difficile sia dal punto di vista sociale che da quello ambientale, modificato ma non trasformato dall’industrializzazione. 

La vicenda di Giacomo si distingue: la sua famiglia ha numerosi possedimenti terrieri e risiede in una villa con giardino, vicino alla Badoera progettata da Palladio. Suo padre, Girolamo, aveva seguito le orme paterne nel commercio di ferro e rame. Si era poi sposato con Isabella Garzarolo. La coppia aveva avuto sette figli, dei quali solo tre sopravvissero. 

Con i proventi della bottega e grazie a oculati investimenti, erano riusciti a raggiungere un’invidiabile posizione economica. Alla morte di Girolamo, la direzione delle aziende agricole e del negozio viene assunta dalla moglie e dal figlio Silvio (1887-1910). Mentre Matteo e Giacomo proseguono il loro percorso nel settore economico-giuridico. Nonostante la scomparsa prematura, Matteo (18761909) concorre a instradare Giacomo verso l’idealità e la militanza socialista. 

Nel 1907 Giacomo si laurea in giurisprudenza all’Università Bologna, sede della più autorevole scuola giuridica italiana. Risalgono agli anni universitari i primi viaggi all’estero, durante i quali comincia a raccogliere materiali sulle strutture carcerarie e sulle statistiche giudiziarie penali, perfezionando anche la conoscenza delle lingue. Velia Titta nasce a Pisa il 12 gennaio 1890. Riceve un'educazione in scuole e collegi cattolici, può dedicarsi agli studi e consegue la licenza alla scuola normale di Pisa. Si accosta alla poesia dando alle stampe, appena diciottenne, “Primi versi” e la raccolta “È l'alba”. Più impegnativo il lavoro sul versante della prosa, con il romanzo “L'idolatra”, firmato con lo pseudonimo Andrea Rota e pubblicato nel 1920. 

Velia e Giacomo si conoscono durante una vacanza nel 1912. Durante la guerra decidono di sposarsi: una decisione travagliata per l'opposizione di Giacomo, ateo, al rito religioso in nome di quella precisa coerenza di atto e di pensiero che per lui rappresenta un bisogno assoluto. Alla fine, Velia accetta fl solo vincolo civile, rispettando le convinzioni di Giacomo ma senza rinunciare a riaffermare le proprie. Dalla loro unione nascono tre figli: Giancarlo (1918), Matteo (1921) e Isabella (1922). 

Primo Piano

  • Velia Titta e la sua famiglia. La Belle Epoque europea 

Il padre di Velia, Oreste Titta, era un maestro del ferro battuto, libertario d’indole e di pensiero, ammiratore dell’anarchico Carlo Cafiero. Fu lui a forgiare la corona funebre del presidente Marie Francois Carnot al Pantheon di Parigi. Agli antipodi, la madre di Velia, Amabile Sequenza: profondamente religiosa e di austera quanto intransigente moralità, si occupava dei lavori domestici e dell'educazione dei figli. Nel 1912, quando conosce Giacomo, Velia è già da tempo orfana della madre, morta appena cinquantenne, e di fatto priva anche del padre che s'era distaccato dalla famiglia per unirsi a un’altra donna. È l’ultima di sei figli, due maschi (Ettore e Ruffo Cafiero) e tre femmine (Fosca, Nella e Settima). 

Velia è affidata all’affettuosa sollecitudine, anche materiale, del fratello Ruffo, che assume con generoso impegno le veci del padre provvedendo alla sua formazione culturale e artistica. 

Ruffo (1877-1953), in arte Titta Ruffo, considerato il più grande baritono della storia della lirica italiana, è una figura che incarna perfettamente la borghesia colta della Belle Époque, in contrapposizione agli sfarzi ostentati delie famiglie imperiali che regnavano în Europa prima della Grande Guerra, 

“C'era nell'aria un senso di benessere crescente e di gioia della vita” che, indipendentemente dalle tensioni politiche, portava la classe borghese a confidare nel progresso. 

La vita artistica di Titta Ruffo si svolge perlopiù nelle Americhe: sì trova a Bogotà quando lo raggiunge la notizia del rapimento del cognato. Quel fatto segnerà un drastico mutamento nella parabola del baritono che, dal 1925 non vorrà più cantare in Italia, Nondimeno, Il regime avrebbe esercitato pressioni sui teatri anche all’estero, ostracizzando l'artista, 

La sorella Nella sposerà Casimiro Wronowski, un giornalista e avvocato di origine pofacca che, dopo Il delitto, sarà nominato tutore dei figli di Velia e Giacomo. 

Fosca (1879-1957), promettente soprana, si esibisce in numerosi teatri italiani e nel 1906 canta a San Pietroburgo con Il fratello. Negli anni Venti si ritira dalle scene e sposa un importante industriale milanese di origine boema, Emerico Steiner, che nel 1919 era divenuto presidente dell'Atala, la nota fabbrica di velocipedi. Sarà Emerico che assisterà Velia dopo il delitto del marito.

  • Dall’impegno sul territorio al socialismo 

Appena tredicenne Giacomo si iscrive alla gioventù socialista e nel 1904 al partito, colpito dall'estrema miseria delle popolazioni rurali del Polesine. 

Fino al 1916, quando sarà confinato a Messina, opera esclusivamente sul piano locale, distinguendosi come leader del socialismo polesano. Matteotti diviene presto protagonista della vita amministrativa locale: nel 1908 è eletto nel consiglio comunale di Fratta, poi come sindaco di Villamarzana e Boara, e ancora a Lendinara, Badia, San Bellino. Proprio nella veste di amministratore pubblico, nonché di capogruppo al Consiglio provinciale di Rovigo, Matteotti può dedicarsi fattivamente alla preparazione e revisione dei bilanci, al riordinamento delle scuole primarie, alla creazione di asili e biblioteche, ospedali, comunicazioni tranviarie e fluviali. Un riformismo, il suo, che non è un generico ideale umanitario né tanto meno un impaziente rivoluzionarismo velleitario, anche se non privo di prese di posizioni scomode: nel 1912 è contro la guerra di Libia, sogna la neutralità, immagina la politica come servizio. Queste idee ed esperienze spiegano l'ostilità di Giacomo verso ogni forma di demagogia e di retorica estremista e l’inflessibile ostinazione con cui difende, nel partito e nel Paese, le conquiste democratiche e la pace, indispensabili per attuare il programma riformista. 

Bravo oratore, capace di trascinare le masse, è oggetto di simpatie, come pure di antipatie, anche all’interno del suo partito. D'altronde i modi bruschi, il suo evidente disinteresse personale, come la stessa figura di ricco proprietario passato al socialismo, lo avevano reso bersaglio di aspre polemiche da parte della stampa locale liberale e cattolica. 

Bisogna tenere conto che il riformismo matteottiano si collega, nelle sue più profonde radici, al filone del socialismo gradualista sviluppatosi nelle campagne padane. Un'opera laboriosa e tenace, fondata sulla fiducia nella lenta ma sicura maturazione delle masse lavoratrici. 

La fiducia di Giacomo in un graduale ma inesorabile progresso della condizione e della cultura delle masse si contrappone a una visione del futuro che - influenzata dalle nuove tecnologie industriali che andavano trasformando la società - predicava l'azione immediata come unico mezzo per una trasformazione radicale (presente nel pensiero dei Futuristi). 

Forte di questa vasta esperienza, Matteotti riesce a imporsi all'attenzione dei dirigenti nazionali del partito in occasione del congresso dei comuni socialisti del gennaio 1916. Due mesi dopo è chiamato a ricoprire la carica di segretario del comitato direttivo della Lega dei Comuni socialisti, 

  • Per la guerra o per la guerra alla guerra 

La guerra è uno spartiacque: la politica si spacca, anche Internamente alle stesse formazioni, tra neutralisti e interventisti; forzando l'ingresso in guerra sl compie Il primo atto di violenza autoritaria nazionalista, obbligando la Camera contraria a votare per l'intervento, 

Lo stesso Mussolini tiene una posizione ambigua, il suo iniziale neutralismo prende presto una svolta interventista, pur mantenendosi sempre lontano dal fronte. Con il supporto di borghesia e industrie, Mussolini fonda il Popolo d'Italia che diviene la voce dell’interventismo, seminando paura nella sinistra. Il socialismo è visto come nemico internazionalista, antimilitarista e disfattista. 

Di fronte alla prima guerra mondiale il PSI assume una posizione nettamente neutrale e quando, nel maggio 1915, il Governo decide di intervenire nel conflitto, mantiene una posizione di non adesione, pur nel rifiuto di impegnarsi in iniziative che avrebbero potuto compromettere le sorti dei soldati al fronte: “Né aderire, né sabotare”. 

La profonda avversione di Matteotti alla guerra era già emersa in occasione del conflitto libico. 

Alieno da ogni infatuazione nazionalistica e suggestione letteraria, è soprattutto refrattario a quelle manifestazioni agitate dall’interventismo della sinistra rivoluzionaria che, in qualche modo, determinarono incertezze e defezioni anche nelle correnti più estreme e radicaleggianti del suo partito. 

Lo preoccupa che si lasci il monopolio delle piazze ai sindacalisti rivoluzionari, a gruppi di anarchici e ai mussoliniani affascinati dal mito della “guerra santa rivoluzionaria”. 

Una minoranza, di fronte anche a una maggioranza parlamentare giolittiana contraria all'ingresso dell’Italia in guerra, ma che si muove su un terreno a lei congeniale dove può far valere una lunga esperienza di lotte. 

L'intransigenza con cui sostiene le proprie idee gli costa molte sofferenze personali. Nel 1915 rischia più volte di essere aggredito dagli interventisti più estremi durante i comizi ed è vittima di diverse campagne diffamatorie condotte dai giornali avversari. Nella guerra, in trincea e lontano dal fronte 

Ci è consentito attestare la coerente persistenza di Matteotti nell’opposizione alla guerra e nel rifiuto a mutare le proprie idee attraverso la corrispondenza con Velia, che sposa nel gennaio 1916. 

A giugno dello stesso anno provoca un incidente al Consiglio provinciale di Rovigo, le scrive: "Ho detto loro quello che avevo nell’animo, contro la barbarie e l’inciviltà della guerra, È stato uno scandalo - minacce d'arresto. Poi tutto è finito nel nulla”. Nell’agosto 1916, benché riformato pochi mesi prima e collocato in congedo, viene non casualmente richiamato alle armi. In quanto figlio unico, superstite di sette fratelli, avrebbe dovuto essere esonerato dalla leva. In un primo tempo è assegnato a Cologna Veneta, ma quel soggiorno dura assai poco. Considerato dal Comando Supremo un “violento agitatore”, è punito con il confino in una zona montagnosa nei pressi di Messina, lontano dal fronte. 

Inizia così il lungo “esilio” siciliano di Matteotti, la sua drastica emarginazione dalla vita pubblica durata sino alla fine del conflitto. 

Velia lo prega di usare premura. Per stargli vicina, già in attesa del primo figlio, si trasferisce in un albergo a Messina. Nel 1918, mentre è ancora in confino, nasce il suo primogenito Giancarlo. 

Matteotti è definitivamente congedato nell'agosto 1919 e autorizzato a fregiarsi del distintivo in virtù della consulenza legale prestata in particolare nei collegamenti, attraverso la Croce Rossa, con i militari siciliani prigionieri in Austria. 

Mentre Matteotti è in Sicilia la guerra dilaga: è una guerra diversa dalle precedenti. Da un lato è dinamica e tecnologica (con aerei, carri armati, cannoni a lunga gettata); dall'altro è immobile, legata alle posizioni conquistate, alla vita di trincea. 

In questo contesto emergono le figure degli arditi, reparti d'assalto spesso armati solo di coltelli che scivolano di notte nella trincea opposta per assassinare il nemico. Saranno loro, nel dopoguerra, a essere prima dimenticati dallo Stato e poi a divenire protagonisti del regime.

Secondo Piano 

  • Il dopoguerra in Parlamento e fuori 

Eletto deputato nel 1919 per il collegio Ferrara-Rovigo, poi confermato nel ’21 e nei ‘24, Matteutti si distingue tra i parlamentari per la solida cultura giuridica e per la tompetenza in campo economico e finanziario. Non manca di intervenire anche in altre questioni: sì immerge nell'azione diretta al di fuori delle dispute, spesso sterili, che connotano il PSI durante il Biennio rosso (1919-1920). 

Le sue vedute lo oppongono all'ideologia nazionalista, dilagante anche a causa della particolare condizione italiana. Così, mentre D'Annunzio occupa Fiume per fisweghiare l'atpoglio patrio e Mussolini fonda, nel 1919, a Milano, f Fasci di Combattimento, l’attività pariamentare di Matteotti continua “indefessa, molteplice, quis onnipresente”. 

Nel Congresso di Amburgo del 1923, durante i lavori per l’internazionale operaia e socialista, auspica la formazione degli Stati Uniti d'Europa: unica soluzione per scongiurare nuovi eventi bellici e la “frammentazione nazionalista in infiniti piccoli Stati tarbolenti e rivali”. 

A differenza dei massimalisti e dei comunisti, dopo la marcia su Roma, Matteotti comprende la vocazione totalitaria del fascismo, e riesce a intuirne i caratterì di novità rispetto alle precedenti esperienze autoritarie, rendendosi conto che a governo Mussolini non rappresenta “una breve e salutare parentesi”, come auspicato da liberali democratici e cattolici, ma apre la strada a un'era di “violenza” e “dittatara”, Per la sua implacabile requisitoria contro il fascismo in Italia e all’estero, attira subito su di sé l'odio degli squadristi, divenendo vittima di una lunga perie di intimidazioni e violenze. 

L'ultimo atto del suo pervicace antifascismo sta nella pubblicazione di “Un anno di dominazone fascista”, una “requisitoria fondamentale” contro ì metodi e Ì risultatì della dittatura, per cui Matteotti raccoglie dati dall'ottobre del 1923, Una documentazione così inoppugnabile procura a Matteotti le minacce di Mussolini, suscettibile alla prospettiva di una diffusione del testo all'estero, La diffusione del volume, seppur in versione ridotta, avverrà solo dopo l'assassinio di Matteotti, quando il volume sarà pubblicato in lingua francese, inglese e tedesca. 

Se non la causa principale, come avrebbero sostenuto alcuni giornali inglesi e francesi, certo il volume di Matteotti aveva contribuito, insieme al suo ultimo discorso parlamentare del 30 maggio 1924, a determinarne la tragica sorte.

  • I congressi socialisti e la Marcia su Roma 

Al Congresso Socialista di Livorno del gennaio 1921, benché indicato a parlare, Matteotti non tiene alcun discorso perché preferisce correre a Ferrara dove - in seguito a sanguinosi incidenti culminati nell’eccidio di Castello Estense - le organizzazioni operaie rischiavano di essere travolte dall’offensiva squadrista. Con quel gesto tempestivo Matteotti prende le distanze da un dibattito congressuale ancora ancorato a prospettive rivoluzionarie, che provocano la nascita del Partito Comunista, sordo invece al fenomeno fascista pericolosamente in atto, e indica con l'esempio la drammaticità del momento e le reali minacce da fronteggiare. Compiutasi nell'ottobre del 1922, al Congresso di Roma, una seconda scissione nella compagine socialista che portò all'espulsione dell'ala riformista del partito, Matteotti assume la carica di segretario della nuova formazione politica (il Partito Socialista Unitario) e si preoccupa subito, secondo la sua indole pragmatica, di dare al partito una piattaforma programmatica che abbia “ripercussioni non soltanto sugli strati popolari, ma anche nei più colti e moderni della borghesia”. 

Poco dopo, combinando la pratica squadrista con il compromesso politico, Mussolini mise in atto una nuova tattica di conquista del potere. 

Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre del ‘22 gli squadristi iniziarono ad affluire alla periferia di Roma, minacciando la capitale. Il piano, organizzato dal PNF, non avrebbe in realtà avuto alcuna possibilità di riuscita, in quanto le impreparate squadre fasciste non sarebbero state in grado di affrontare uno scontro con l'esercito regio. Probabilmente lo stesso Mussolini non credeva nel successo militare dell'operazione, ma aveva intuito la sua importanza come strumento di pressione politica. 

ka mattina del 28 ottobre il governo Facta decise di proclamare lo stato d'assedio, ma fl Re rifiutò di firmare il decreto, dando così il via libera all'occupazione fascista della capitale. Il giorno seguente Vittorio Emanuele IIl inviò un telegramma a Mussolini per comunicare la sua volontà di affidargli un incarico di governo. Questi, che non aveva partecipato alla marcia, partì da Milanola sera stessa, diventando così presidente del consiglio. Una forza nata come antipartitica era così diventata istituzionale.

  • 10/06/24 

Matteotti viene aggredito il 10 giugno 1924 nei pressi della sua abitazione, nel quartiere Flaminio, mentre st reca alla biblioteca della Camera. 

Alle 16.30 è uscito di casa, in via Pisanelli 40, e dopo aver percorso via Mancini, appena giunto sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, viene assalito da alcuni uomini e trascinato, dopo una violenta colluttazione, su una Lancia dove poi è assassinato con un pugnale. 

Gli aggressori sono Amerigo Dumini, Augusto Malacria, Amleto Poveromo, Giuseppe Viola e Albino Volpi, componenti la cosiddetta “Ceka” o "Banda del Viminale” agli ordini di Cesare Rossi, capo dell'Ufficio Stampa di Mussolini, € di Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Partito fascista. 

Wiassolni viene informato del delitto la mattina dopo dal suo segretario particolare, Arturo Fasciolo che gli consegna il passaporto e una lettera sottratti a Matteotti da Dammi 

Le ricerche del corpo 

Il cadavere di Matteotti viene sepolto dai suoi sicari nella macchia della Quartarella, a Riano Flaminio, a una ventina di chilometri da Roma. Una tenuta di proprietà del principe Francesco Boncompagni Ludovisi. 

fi corpe straziato e completamente denudato viene schiacciato in una piccola fossa. Vestiti e oggetti di valore vengono spartiti tra i sequestratori. 

Le noerche della salma di Matteotti, estese anche al lago di Vico, si protraggono per varie settimane coinvolgendo carabinieri, militari e una folla di giornalisti, 

M 13 agosto viene ritrovata la giacca di Matteotti in un cunicolo, Tre giorni dopo un carabiniere in licenza, figlio dei casieri della Quartarella fascistì, ritrova, in circostanze sospette, quel che rimane del corpo del deputato socialista. 

Dopo il riconoscimento ai cimitero di Riano, la bara viene trasferita, su disposizione governativa, alla stazione di Monterotondo e fatta proseguire su un carro merci alla volta di Fratta Polesine, 

Secessione deil'Aventino 

in seguito all'uccisione di Giacomo Matteutti, Il 27 Giugno del 1924, le opposizioni pariamentari al governo fascista misero fn atto una forma di protesta, nota come secessione detl'Aventina, 

Con allusione alla storta romana, circa 123 deputati rifiutarono di tornare nell'aula della Camera e proclamarono l'impossibilità di riprendere | lavori parlamentari finché i responsabili del delitto Matteotti non fossero stati processati e un nuovo governo non avesse ristabilito le libertà democratiche. 

Gli “aventiniani” non entrarono più nell'aula, nella quale rimasero, oltre ai fascisti, soltanto i comunisti (che tornarono a novembre) e i deputati vicini all’ex presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, leader fermamente contrario all’Aventino. 

La secessione s'inserì in un momento delicato del governo di Mussolini, ma l'indignazione che l'aveva determinata non ebbe sbocco politico a causa dell'incertezza dei capi delle opposizioni - divisi com'erano tra cattolici, socialisti, comunisti e liberali - che non vollero riportare la lotta in Parlamento. 

Mussolini poté passare alla controffensiva e, a partire dall'anno successivo, approvò rapidamente e senza ostacoli le cosiddette “leggi fascistissime”. Nel novembre 1926 { deputati dell’Aventino furono dichiarati decaduti dal mandato parlamentare. 

  • Il processo “beffa” di Chieti 

Dopo {fl rinvio a giudizio degli esecutori del delitto Matteotti, nel dicembre 1925 la Corte di Cassazione decide di trasferire il processo a Chieti, città profondamente fascista e difficile da raggiungere, 

Il governo, tuttavia, preoccupato dei possibili riflessi interni e internazionali del processo, delibera di adottare eccezionali misure di ordine pubblico. L'incarico è affidato direttamente all'Ispettore generale del ministero dell'Interno Angelucci, coadiuvato da 5 commissari, 9 funzionari, 93 agenti, 362 carabinieri, 265 militari, 100 elementi della Milizia. Lo stesso Mussolini scende in campo per fissare perentoriamente i limiti entro i quali avrebbe dovuto svolgersi e concludersi il processo, Per ridurre al massimo la visibilità dell'evento e cancellarne futura memoria è fatto divieto assoluto di riprendere immagini nell'aula del tribunale con macchine fotografiche e con cineprese. 

Una volta assunte informazioni dettagliate sugli orientamenti politici dei giurati tali da escludere elementi “ostili al regime e al fascismo”, il dibattimento può avere inizio. Il processo dura appena una settimana e si apre il 16 marzo alla presenza di tutti i membri della Giunta esecutiva della Federazione provinciale fascista. Il dibattimento si rivela un'autentica “farsa”, come avrebbe scritto Turati a Velia Matteotti, una “beffa atroce... evidentemente concordata”. 

Grazie all’amnistia concessa nel 1925 peri reati politici, gli imputati possono tornare in libertà dopo appena due mesi. 


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